
Mobbig tra colleghi: paga il datore di lavoro Cass. Civile Sent. Sez. L Num. 27913 Anno 2020
Il Tribunale di Fermo con la sentenza n. 17/2016, depositata il 26.1.2016, in parziale accoglimento del ricorso proposto da Omississ lavoratrice, ha dichiarato la illegittimità del licenziamento alla stessa intimato dalla S.p.A.Omississ datrice di lavoro, disponendo la reintegrazione della lavoratrice nel luogo di lavoro, ed ha condannato la società datrice al pagamento, in favore della prima, dell'indennità risarcitoria dal licenziamento sino alla effettiva reintegra, oltre al versamento dei contributi maturati e maturandi.
La Corte territoriale di Omississ, con sentenza pubblicata in data 19.1.2018, ha respinto l'appello principale interposto dalla S.r.l. datrice (nei confronti della lavoratrice, avverso la detta pronunzia, ed in parziale accoglimento dell'appello incidentale della lavoratrice, ha condannato la società al pagamento, in favore di quest'ultima, della somma di Euro 5.422,50, a titolo di risarcimento del danno da invalidità temporanea conseguente al mobbing posto in essere nei suoi confronti, confermando, nel resto, la sentenza impugnata.
"Occorre sottolineare, alla stregua dei consolidati arresti giurisprudenziali di legittimità (cfr, ex plurimis, Cass. nn. 10145/2017; 22710/2015; 18626/2013; 17092/2012; 13956/2012), che la responsabilità datoriale per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l'integrità psico-fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, nell'ipotesi in cui esse non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all'art. 2087 c.c., costituente norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione e che impone all'imprenditore l'obbligo di adottare, nell'esercizio dell'impresa, tutte le misure che, avuto anche riguardo alla particolarità de/lavoro in concreto svolto dai dipendenti, siano necessarie a tutelare l'integrità psico-fisica dei lavoratori (cfr., tra le molte, Cass. nn. 27964/2018;16645/2003; 6377/2003). Ed i giudici di seconda istanza, attraverso un iter motívazionale scevro da vizi logico-giuridici e fondato su una condivisibile valutazione degli elementi delibatori, si sono del tutto attenuti alla consolidata giurisprudenza di legittimità nella materia.
Nel caso in esame, sebbene il datore di lavoro non si sia reso protagonista diretto delle condotte vessatorie subite dalla Omississ lavoratrice, tuttavia lo stesso non può andare esente da responsabilità rispetto ai propri obblighi di tutela previsti dall'art. 2087 c.c.. Il datore, in particolare, anche con riferimento all'episodio del luglio 2007, sebbene avesse udito le grida e sebbene fosse stato informato tanto dal Omississ quanto dalla lavoratrice non ha mai reagito a tutela dell'integrità morale di quest'ultima.
Al riguardo, è altresì da osservare che la dottrina e la giurisprudenza più attente hanno sottolineato come le disposizione della Carta costituzionale abbiano segnato anche nella materia giuslavoristica un momento di rottura rispetto al sistema precedente "ed abbiano consacrato, di conseguenza, il definitivo ripudio dell'ideale produttivistico quale unico criterio cui improntare l'agire privato", in considerazione del fatto che l'attività produttiva - anch'essa oggetto di tutela costituzionale, poiché attiene all'iniziativa economica privata quale manifestazione di essa (art. 41, primo comma, Cost.) - è subordinata, ai sensi del secondo comma della medesima disposizione, alla utilità sociale che va intesa non tanto e soltanto come mero benessere economico e materiale, sia pure generalizzato alla collettività, quanto, soprattutto, come realizzazione di un pieno e libero sviluppo della persona umana e dei connessi valori di sicurezza, di libertà e dignità.
Da ciò consegue che la concezione "patrimonialistica" dell'individuo deve necessariamente recedere di fronte alla diversa concezione che fa leva essenzialmente sullo svolgimento della persona, sul rispetto di essa, sulla sua dignità, sicurezza e salute - anche nel luogo nel quale si svolge la propria attività lavorativa.
PQM
La Corte rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.