L’affissione del C. Disciplinare non è condizione indefettibile, allorquando vi sia violazione del c.d. minimo etico. C.Civile Sent. Sez. L Num. 11120 Anno 2021

16.05.2021

La Corte d'Appello di Trieste, con la sentenza n. 216 del 2018, pronunciando sull'appello proposta da P. S., nei confronti del Ministero dell'economia e delle finanze, avverso la sentenza resa tra le parti dal Tribunale di Trieste, ha rigettato impugnazione.

Il S. era stato sottoposto a procedimento penale per il delitto di turbata libertà degli incanti per fatti commessi in servizio, ed era stato sottoposto a procedimento disciplinare per tali fatti.

Il procedimento disciplinare era stato poi sospeso.

Dopo che il procedimento penale era stato definito con sentenza irrevocabile di condanna, era stato riattivato il procedimento disciplinare, all'esito del quale il S. era stato licenziato per giusta causa.

Il lavoratore aveva impugnato il licenziamento dinanzi al Tribunale di Trieste che rigettava la domanda.

La Corte d'Appello nel rigettare l'impugnazione ha affermato, in particolare, quanto segue.

Poiché nella specie il contegno sanzionato era da subito percepibile come contrario al cd. minimo etico ed al codice penale, non assumeva rilievo la pubblicità del codice disciplinare.

Peraltro, il S. aveva ammesso di essere a conoscenza che il comportamento tenuto era pressoché ingiustificabile, rendendo palese la consapevolezza della gravità dei fatti ascrittigli.

Per la cassazione della sentenza di appello ricorre il lavoratore...

Resiste con controricorso il Ministero.

Ricorda il lavoratore che la norma contrattuale stabilisce "Al codice disciplinare deve essere data la massima pubblicità mediante affissione in posto di lavoro in luogo accessibile a tutti i dipendenti e che tale forma di pubblicità è tassativa e non può essere sostituita con altre".

Dunque, il CCNL impone l'affissione del codice disciplinare come forma ad Aub.slantiam, con la conseguenza che la violazione di tale previsione è causa di nullitàdella sanzione disciplinare, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità.

La Corte d'Appello ha ricordato che il fatto commesso dal ricorrente e poi contestatogli in sede disciplinare costituisce e costituiva reato ed è stato sanzionato in sede penale con sentenza irrevocabile.

Il lavoratore, in ragione di sentenza penale passata in giudicato, era colpevole a tutti gli effetti del delitto di cui agli artt. 81, 110 e 353 cod. pen., per avere in modo reiterato ed in concorso con gli altri turbato la regolarità di informali gare volte alla fornitura dell'Ufficio del Ministero di sua appartenenza.

Il contegno sanzionato era da subito percepibile come illecito in quanto contrario al minimo etico e al codice penale, con la conseguenza che non era necessaria la pubblicità del codice disciplinare.

È vero che la contrattazione collettiva prevede la determinazione della tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni, ma al contempo essa richiama l'art. 2106 cod. civ. e, di conseguenza, anche le norme generali (art. 2104 e 2105 cod. civ.), cui la medesima disposizione rinvia.

Ciò permette di radicare l'illecito disciplinare nella violazione dei generalissimi obblighi di diligenza e fedeltà e dunque consente in ogni caso la persecuzione disciplinare dei fatti che, esorbitando dal menzionato "minimo etico", si pongano al contempo in contrasto con quegli obblighi e risultino in lineare correlazione rispetto al mantenimento o meno del rapporto fiduciario.

Pertanto, non sono fondate le censure volte a sostenere la necessità della pubblicità del codice disciplinare.

In tema di licenziamento disciplinare, la tipizzazione delle cause di recesso contenuta nella contrattazione collettiva non è vincolante, potendo il catalogo delle ipotesi di giusta causa e di giustificato motivo essere esteso, in relazione a condotte comunque rispondenti al modello di giusta causa o giustificato motivo, ovvero ridotto, se tra le previsioni contrattuali ve ne sono alcune non rispondenti al modello legale e, dunque, nulle per violazione di norma imperativa; ne consegue che il giudice non può limitarsi a verificare se il fatto addebitato sia riconducibile ad una previsione contrattuale, essendo comunque tenuto a valutare in concreto la condotta addebitata e la proporzionalità della sanzione (Cass.. n. 3283 del 2020).

                                               

                                                                  PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro 6.000,00 per compensi professionali, oltre spese prenotate a debito